Il fatto prospettato
La sentenza di Cassazione, pur recentissima, giunge a pronunciarsi su fatti risalenti: un rapporto giuridico sorto nel 1991, proseguito con modificazioni sino al 2003, e, in tale anno, revocato unilateralmente dall’azienda.
In dettaglio; il Dottor F. – in qualità di vincitore del concorso per titoli ed esami indetto per la copertura di un posto di direttore sanitario – a partire dal 17 giugno 1991 ha iniziato a svolgere l’attività di direttore medico del Presidio ospedaliero di (OMISSIS), con rapporto a tempo indeterminato, fino al 21 giugno 1995; dal 22 giugno 1995 al 30 novembre 2000, previa aspettativa, ha ricoperto l’incarico di direttore sanitario dell’AUSL di (OMISSIS); al termine dell’aspettativa ha ripreso servizio come direttore medico di presidio ospedaliero dell’Azienda Ospedaliera fino al provvedimento 7 ottobre 2003, servizio dal quale, senza preavviso, è stato rimosso dall’incarico di dirigente medico e gli sono state attribuite altre funzioni (di “product manager”).
Le domande risarcitorie
Il dottor F chiede: la restaurazione della posizione di direttore sanitario; il risarcimento dei danni patiti (sia patrimoniali sia d’immagine). Due domande connesse, ma distinte, destinate a due esiti diversi (accoglimento per la prima, non per la seconda).
Il primo grado
Tribunale di S.M. Capua Vetere del 6 maggio 2008 non accoglie la domanda la reintegrazione e condanna l’Azienda Ospedaliera al risarcimento del danno patrimoniale.
Il secondo grado
La Corte d’Appello (in conformità alla decisione di primo grado) nega, in primo luogo, l’esistenza di un diritto a riottenere l’incarico dirigenziale. La motivazione è come segue.
In base al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, gli atti e i procedimenti posti in essere dalla Pubblica Amministrazione ai fini della gestione dei rapporti di lavoro subordinato devono essere valutati secondo gli stessi parametri che si utilizzano per i privati datori di lavoro: Ciò ha fonte in una precisa scelta legislativa (con adozione di moduli privatistici per l’azione amministrativa): scelta che la Corte costituzionale ha ritenuto conforme al principio di buon andamento dell’Amministrazione di cui all’art. 97 Cost. (sentenze n. 275 del 2001 e n. 11 del 2002).
Nell’ assetto che in materia sanitaria è stato realizzato con il D.Lgs. n. 502 del 1992, la dirigenza è caratterizzata da temporaneità degli incarichi e dall’esclusione della configurabilità di diritti soggettivi degli interessati a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale, ancorché corrispondenti all’incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro e anteriormente alla cosiddetta “privatizzazione”.
Ne deriva che, nel lavoro pubblico privatizzato, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo, e questo non consente di ritenere applicabile l’art. 2103 c.c., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico.
Nella specie, anche se il F. è stato immesso nel ruolo dirigenziale come vincitore di concorso molto prima delle data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 502 del 1992 (1 gennaio 1993) il suo rapporto deve essere “riconsiderato” alla stregua della nuova disciplina, che ha il suo fulcro nella temporaneità degli incarichi.
La Corte di appello, tuttavia, ritiene illegittima la rimozione senza preavviso (da direttore sanitario e l’assegnazione di nuove funzioni (di product manager). La motivazione è come segue.
l’Amministrazione non ha provveduto a comunicare all’interessato il termine finale dell’incarico ricoperto (incarico di direttore sanitario) quindi può applicarsi come termine massimo di durata quello di sette anni previsto dal D.Lgs. n. 502 cit., art. 15, come modificato dal D.Lgs. n. 229 del 1999.
Al momento in cui è intervenuto il provvedimento di rimozione mancava più di un anno alla suddetta scadenza, pertanto deve configurarsi un inadempimento della PA per mancato rispetto del suddetto termine massimo di durata dell’incarico (9 maggio 2005);
Nel periodo compreso tra l’8 ottobre 2003 e il 9 maggio 2005 indubbiamente il F. ha subito altresì un danno professionale, in termini di immagine, che è stato provato e che deriva principalmente dall’adibizione a mansioni di livello molto inferiore a quelle svolte in precedenza.
Tale danno è da commisurare al 50% della retribuzione percepita per ciascun mese a decorrere da (omissis) a (omissis) oltre agli interessi legati dalla maturazione dei crediti.
La Corte di Cassazione
La suprema Corte ricorda anzitutto quanto segue.
Quanto al quadro normativo di riferimento, per effetto della riforma del pubblico impiego, la dirigenza sanitaria del SSN, che rientra nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, è disciplinata dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (entrato in vigore il 21 febbraio 1993), e successive modificazioni, salvo quanto previsto dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, specificamente dedicato alla disciplina in materia sanitaria ed entrato in vigore 11 gennaio 1993 (vedi, D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15, comma 2, nel testo risultante dalla sostituzione ad opera del D.Lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 13).
Le peculiarità della dirigenza sanitaria avevano determinato, nell’immediatezza dell’entrata in vigore della riforma, l’introduzione di una speciale normativa transitoria in materia, dettata dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 26, che si distingueva dalla generale normativa transitoria per la dirigenza della Pubblica Amministrazione e prevedeva che: “Le posizioni funzionali corrispondenti al decimo ed undicesimo livello retributivo dei ruoli professionale, tecnico ed amministrativo delle amministrazioni, delle aziende e degli enti del Servizio sanitario nazionale sono conservate ad personam fino all’adozione dei provvedimenti di attribuzione della qualifica di dirigente prevista dall’art. 22” (comma 1).
Questa disciplina transitoria è stata abolita, a partire dal 13 gennaio 1994, dal D.Lgs. 23 dicembre 1993, n. 546, art. 14, che ha sostituito il testo originario dell’art. 26, dettando una più articolata normativa transitoria per la dirigenza sanitaria del SSN, con la quale ha, fra l’altro, precisato che, per l’attribuzione di incarichi dirigenziali nell’ambito delle AUSL derivanti dalle leggi regionali (ai sensi del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 3) era necessario “tenere conto della posizione funzionale posseduta dal relativo personale all’atto dell’inquadramento nella qualifica di dirigente” (comma 2 quinquies).
È da escludere che la suddetta normativa transitoria contenuta nella versione originaria del D.Lgs. n. 29 del 1993 – rimasta in vigore per un breve periodo iniziale – possa essere configurata come derogatoria, in parte qua, del principio fondamentale della privatizzazione.
Del resto, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, la riforma del lavoro pubblico, introdotta con il D.Lgs. n. 29 del 1993, è ispirata “alle finalità di “accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei Paesi della Comunità Europea”, di “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica”, di “integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” (v. art. 1)”, ricomprendendovi anche la dirigenza (Corte cost., sentenze n. 359 del 1993 e n. 150 del 2015).
Con riguardo alla dirigenza, nella costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte è stato affermato che in materia di incarichi dirigenziali il legislatore della riforma ha attribuito al datore di lavoro pubblico ampia potestà discrezionale sia nel non avvalersi di un determinato dipendente pur in possesso della qualifica di dirigente mettendolo così a disposizione (prima del ruolo unico di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, come modificato dal D.Lgs. n. 98 del 1980, art. 15, e ora dei ruoli di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 23) sia nella scelta dei soggetti cui conferire incarichi dirigenziali, aggiungendosi che, rispetto a tale potestà discrezionale, la posizione soggettiva del dirigente aspirante all’incarico non può atteggiarsi come diritto soggettivo pieno, bensì come interesse legittimo di diritto privato, posizione prodromica a quella della costituzione del rapporto dirigenziale da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei “diritti” di cui all’art. 2907 cod. civ. (vedi, per tutte: Cass. 5 dicembre 2011, n. 25972; Cass. 30 maggio 2011, n. 11901; Cass. 14 aprile 2008, n. 9814; Cass. 22 giugno 2007, n. 14624; Cass. 23 febbraio 2007, n. 4275).
Tuttavia, la posizione di chi è utilmente inserito nella graduatoria del concorso per la qualifica dirigenziale non può certamente essere equiparata a quella dell’attuale ricorrente che – avendo vinto un concorso pubblico come direttore sanitario molto prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, e avendo di conseguenza cominciato a lavorare nel giugno 1991 – sicuramente, in base alla normativa all’epoca vigente era titolare di un diritto soggettivo pieno alla qualifica e alle funzioni di direttore sanitario (arg. ex Cass. SU 23 settembre 2013, n. 21671 e Cass. 21 aprile 2006, n. 9384).
Con l’entrata in vigore della riforma tale posizione soggettiva non poteva permanere in quanto tale, essendo noto che il diritto quesito funziona come limite alla retroattività della legge (statale) soltanto se questa non dispone in senso contrario, ben potendo la legge stessa modificare, ridurre o persino sopprimere un diritto quesito, sia espressamente, sia con una disposizione chiaramente incompatibile con l’ulteriore permanenza di un tale diritto (Cass. 29 agosto 1963, n. 2372; Cass. SU 1 marzo 1988, n. 2166; Cass. 16 giugno 2014, n. 13960).
Le precedenti notazioni, unitamente con la ricostruzione del quadro normativo di riferimento, portano al rigetto del primo motivo del ricorso principale (inteso a ottenere la restaurazione del ricorrente nelle funzioni di direttore sanitario.
Tuttavia, è indubbio che la suddetta posizione soggettiva avrebbe dovuto essere opportunamente “armonizzata” con il nuovo assetto organizzativo del settore e dell’Azienda; cosicché, a tal fine, diversamente da quel che si afferma nella sentenza della Corte di Appello, non era sufficiente che l’Amministrazione provvedesse ad effettuare la comunicazione all’interessato del termine finale dell’incarico ricoperto, senza averlo prima sentito e senza che vi fosse stata una preventiva stipulazione del contratto individuale ad hoc.
Infatti l’Azienda, per procedere correttamente alla suddetta “armonizzazione”, avrebbe dovuto prima provvedere ad effettuare la necessaria revisione ordinamentale, tenendo conto anche della particolare posizione del ricorrente F., secondo quanto disposto dalla legislazione generale (a partire dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 5, invocato dalla controricorrente) e speciale nonché dal CCNL 1994-1997 del Comparto Sanità (spec. art. 35) e poi – previo un momento di confronto con l’interessato, necessario al fine del rispetto dell’art. 97 Cost. – avrebbe dovuto predisporre … il contratto individuale contenente il nuovo inquadramento di F. come concordato e la relativa tempistica, che poi avrebbe dovuto sottoporre alla sottoscrizione del dirigente.
In tal senso, è jus receptum che nell’impiego pubblico privatizzato, nell’ambito del quale anche gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall’Amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, le norme obbligano l’Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. (tra le tante: Cass. SU 23 settembre 2013 n. 21671; Cass. 23 settembre 2013, n. 21700; Cass. 12 ottobre 2010, n. 21088; Cass. 14 aprile 2008, n. 9814);
Il rispetto dei criteri generali di correttezza e buona fede si traduce oltre che nell’obbligo delle Amministrazioni di adottare adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e di esternare le ragioni giustificatrici delle proprie scelte anche per quel che riguarda il caso di specie – nel promuovere tempestivamente la stipulazione del contratto individuale indispensabile per effettuare un corretto inserimento del F. nella nuova organizzazione anziché, senza mai modificare i termini del rapporto e senza alcuna preventiva comunicazione, revocare implicitamente – come riconosce anche la Corte territoriale – l’incarico dirigenziale (che il dipendente F. stava legittimamente esercitando dall’11 dicembre 2000) con il provvedimento del 7 ottobre 2003, con il quale è stata disposta la rimozione del ricorrente dall’incarico di dirigente medico fino ad allora ricoperto e gli sono state attribuite altre funzioni (di “product manager”) diverse e inferiori, nella sostanza, a quelle da sempre svolte. Conseguentemente, la revoca implicita del rapporto dirigenziale, determinando l’interruzione ingiustificata del rapporto di ufficio – nella specie, dirigenziale – costituisce una violazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, del giusto procedimento, nonché di coordinamento della finanza pubblica che in questa sede rilevano come violazioni dei criteri generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), configurando un inadempimento contrattuale della PA, suscettibile di produrre un danno risarcibile.
Nella specie, la sussistenza di tale danno è stata accertata, ma ai fini della relativa quantificazione la Corte d’appello, non ha preso in considerazione tutto il periodo compreso dal provvedimento che lo ha distolto dall’incarico dirigenziale fino alla legittima durata del rapporto trasformato in temporaneo e quindi fino al 30 novembre 2007.
In estrema sintesi: a) il primo motivo del ricorso principale va respinto in quanto non può affermarsi l’esistenza del diritto, del dipendente F., alla riassegnazione dell’incarico illegittimamente revocato, visto che il diritto soggettivo alla qualifica e alle funzioni di direttore sanitario non poteva ulteriormente permanere come tale dopo l’entrata in vigore della riforma del pubblico impiego b) il secondo e il terzo motivo del ricorso principale vanno accolti in quanto il comportamento della PA è stato inadempiente e tale da produrre danni risarcibili, la cui esistenza è stata accertata dalla Corte d’appello, che però ha errato nella relativa quantificazione.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e quindi anche al seguente:
“in tema di lavoro pubblico contrattualizzato, nell’ipotesi di un rapporto di lavoro di un dirigente iniziato prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 29 del 1993, per effetto del superamento da parte del dirigente stesso di un regolare concorso pubblico, il diritto soggettivo pieno alla qualifica e alle funzioni proprie del posto messo a concorso e poi occupato di cui l’interessato, in base alla normativa all’epoca vigente, era titolare in qualità di vincitore del relativo concorso, non può permanere in quanto tale dopo l’entrata in vigore della riforma del pubblico impiego (21 febbraio 1993), per evidente incompatibilità con la disciplina della dirigenza contenuta in tale riforma, i cui principi si rinvengono anche nel D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 15 e ss., (entrato in vigore gennaio
1993) specificamente dedicato alla dirigenza sanitaria del SSN. Pertanto, l’ente datore di lavoro – nella specie un’Azienda sanitaria – si deve attivare per fare in modo che la suddetta posizione soggettiva sia opportunamente “armonizzata” con il nuovo assetto organizzativo del settore e quindi dell’ente stesso. A tal fine il datore di lavoro pubblico, dopo aver provveduto ad effettuare la necessaria revisione ordinamentale tenendo conto anche della particolare posizione del suddetto dirigente, deve, previo un momento di confronto con l’interessato, predisporre, applicando il criterio dell’assicurazione della corrispondenza delle funzioni a parità di struttura organizzativa, il contratto individuale contenente il nuovo inquadramento del dirigente come concordato e la
relativa tempistica, che poi deve sottoporre alla sottoscrizione del dirigente stesso. Se ciò non avviene e se l’Amministrazione, senza alcun preavviso, revoca implicitamente e illegittimamente l’incarico dirigenziale in precedenza regolarmente conferito (dopo l’entrata in vigore della suddetta riforma), assumendone il carattere temporaneo mai prima evidenziato, la PA datrice di lavoro adotta un comportamento che non risulta rispettoso dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) – applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., – e che configura un inadempimento contrattuale della PA medesima, suscettibile di produrre un danno risarcibile“.
Commento.
Di particolare interesse il principio secondo cui, in caso di modifica legislativa di una posizione che riguarda diritti soggettivi di un dipendente (nel caso, modifica concretatasi nel passaggio dalla stabilità alla revocabilità) l’ente datore di lavoro (nel caso, l’azienda sanitaria) si deve attivare per fare in modo che la suddetta posizione soggettiva sia opportunamente “armonizzata” con il nuovo assetto organizzativo del settore e quindi dell’ente stesso: previo un momento di confronto con l’interessato, l’azienda deve predisporre il contratto individuale contenente il nuovo inquadramento del dirigente come concordato e la relativa tempistica, che poi deve sottoporre alla sottoscrizione del dirigente stesso; in mancanza, si ha violazione dei doveri di correttezza e buona fede (oggettiva) nel rapporto con il dipendente.
Ci si può domandare se la legge Gelli possa aver creato, in qualche aspetto, una situazione analoga: interrogativo non da poco, su cui è auspicabile il formarsi di “buone prassi” nei rapporti tra aziende sanitarie ed esercenti le professioni sanitarie.