Errore di prescrizione in cartella clinica (redatta da specializzando). Errore in foglio di prescrizione interna (redatto da studente). Prescrizione abnorme e letale. Mancata percezione, dell’errore, da parte di personale medico. Percezione da parte di personale infermieristico. Confronto, su erronea prescrizione abnorme, tra personale infermieristico e medico. Norme interne o buone pratiche che impongano di rivolgersi a medico strutturato. Negligenza imprudenza imperizia. Rilevanza del degrado del reparto ai fini della ponderazione delle colpe individuali. Cassazione penale sez. IV, 06/03/2019, n. 20270        

FATTO

L’articolazione del caso suggerisce di adottare “sigle” per seguire più agevolmente le posizioni e i ruoli dei singoli operatori (più agevolmente di quanto sia riscontrabile in sentenza, ove accade, per di più, che un medesimo soggetto venga richiamato di volta in volta con modalità diversificate).

Sigle

PAZIENTE: signora trentatreenne, affetta da linfoma di Hodgkin stadio II, in cura presso il Reparto di Oncologia Medica di …

STUDENTE: studente in reparto, ivi afferente a titolo non esplicitato in sentenza (ma, verosimilmente, in qualità di tirocinante), redattore di scrittura del “foglio di prescrizione interna” per la somministrazione, alla PAZIENTE, di Vinblastina: foglio di prescrizione interna poi sottoposto alla firma di personale medico.

MEDICO1: dirigente del reparto, tutor di MEDICO2 nonché di MEDICO3.

MEDICO2: afferente al reparto quale specializzando in oncologia medica, al terzo anno della scuola di specializzazione.

MEDICO3: afferente al reparto quale specializzando in patologia medica nonché quale medico interno volontario specializzato in oncologia medica.

MEDICO4: afferente al reparto, strutturato.

INFERMIERE1: (laureato in infermieristica) afferente al reparto, addetto alla preparazione del farmaco, operante presso l’UMACA – Unità Manipolazione Chemioterapici Antiblastici – ovverosia presso il laboratorio deputato alla preparazione dei farmaci (ubicato in edificio diverso da quello del reparto).

INFERMIERE2: (laureato in infermieristica) afferente al reparto, incaricato della somministrazione del farmaco.

INFERMIERE3: (laureato in infermieristica) afferente al reparto.

Dinamica del caso: sintesi

La PAZIENTE, dell’età di 33 anni, madre da pochi mesi, in cura presso il reparto di Oncologia Medica dell’azienda ospedaliera (OMISSIS) in quanto affetta da linfoma di Hodgkin stadio II, è ivi sottoposta a cura con protocollo antiblastico denominato ABVD, prescritto da MEDICO1 – Dirigente medico operante presso il medesimo reparto – al quale si era rivolta. Questi aveva preferito avviarla alla terapia presso il Reparto di Oncologia dove egli operava, anziché presso il Reparto di Ematologia ove normalmente venivano trattati i c.d. tumori liquidi, nel cui ambito rientra il linfoma di Hodgkin.

Invero, con la circolare n. … del 10 ottobre …, era stato stabilito, dall’allora primario, che i pazienti affetti da malattie mieloproliferative e mieloma non dovessero essere trattati presso il Reparto di Oncologia, ma presso il Reparto di Ematologia.

Fra i farmaci da somministrare alla PAZIENTE vi era l’antiblastico Vinblastina, il cui dosaggio era stato determinato da MEDICO1 nella misura di mg. 9, proporzionato alla superficie corporea della paziente, in modo corrispondente al protocollo medico applicato nel caso di specie, specificamente previsto dagli standard internazionali riconosciuti per la cura della patologia.

Per la data del 7 dicembre … era prevista – in day hospital- la prima delle sedute di somministrazione del farmaco, del secondo ciclo di cura: farmaco a cui la PAZIENTE aveva risposto positivamente nel corso del primo ciclo, senza manifestare alcun effetto collaterale. Il dosaggio era riportato sul frontespizio della cartella clinica redatta in base alla visita effettuata da MEDICO1.

Nondimeno, il giorno previsto viene infuso alla PAZIENTE il quantitativo di mg. 90 di Vinblastina anziché il dosaggio corretto pari a mg. 9; e, nel giro di alcuni giorni, ne è seguito decesso come infra specificato

La sequenza temporale delle condotte e delle vicende appare ricostruibile come segue.

 

Cartella clinica e foglio di prescrizione interna

in data 23 novembre …  viene indicato, in cartella clinica, con grafia di MEDICO2 (specializzando in oncologia), il dosaggio del farmaco in mg. 90 anziché in mg. 9.

In data 6 dicembre …, giorno precedente la prima somministrazione del secondo ciclo di Vinblastina, il foglio di prescrizione interna viene materialmente redatto da STUDENTE, che provvede a trascrivere la terapia riportata sulla cartella clinica, in occasione della seduta del 23 novembre …, con l’indicazione del dosaggio di Vinblastina in mg. 90.

[N.d.R. IN TEMA DI FOGLIO DI PRESCRIZIONE INTERNA. Il foglio di prescrizione interna è il documento sul quale vengono copiate le indicazioni di terapia in modo da avere il supporto cartaceo immediatamente disponibile nel giorno della somministrazione. Siffatta trascrizione interveniva durante la visita antecedente la seduta per la somministrazione del farmaco chemioterapico, nel corso della quale si valutavano le condizioni generali del paziente. Il controllo interveniva normalmente il giorno prima della seduta, ma poteva essere effettuato anche il giorno stesso, nella mattinata. Con il foglio di prescrizione interna il paziente si recava all’Accettazione e consegnava il documento, che veniva trasmesso via fax all’UMACA – Unità Manipolazione Chemioterapici Antiblastici – ovverosia al laboratorio, ubicato in un altro edificio, deputato alla preparazione dei farmaci. Qui, un infermiere professionale del reparto di Oncologia era incaricato della materiale preparazione dei farmaci, che venivano, quindi, trasportati presso il reparto da un commesso e venivano successivamente somministrati al paziente, secondo la numerazione progressiva indicata nel foglio di prescrizione interna].

In data 7 dicembre … MEDICO3 (specializzato in oncologia medica) sottoscrive il foglio di prescrizione interna compilato dallo STUDENTE e recante l’errato dosaggio di mg. 90 di Vinblastina. Indi, MEDICO3 consegna il foglio alla PAZIENTE, che si reca all’ufficio Accettazione.

Preparazione e somministrazione del farmaco

La prescrizione di 90 mg., ricevuta dalla Accettazione, viene trasmessa via fax all’UMACA (ubicato in altro edificio) e viene presa in carico da INFERMERE1 (dottore in infermieristica) in servizio presso il Reparto di Oncologia, addetta alla preparazione dei farmaci. Il medesimo INFERMIERE1, immediatamente avvedutosi della mancanza, presso l’UMACA, del quantitativo di farmaco indicato nella prescrizione (la Vinblastina, infatti, era fornita già ricostituita 1 mg X 1 ml in fiale da ml. 10), telefona in reparto e precisamente al numero interno della saletta dell’ambulatorio di MEDICO1(dirigente). Alla chiamata risponde MEDICO3 (specializzato in oncologia), il quale, dopo aver visionato la cartella clinica facendo riferimento alla prescrizione ivi trascritta il 23 novembre, conferma che il dosaggio è pari a mg. 90 ed invita INFERMIERE1 a telefonare alla CAPOSALA affinché quest’ultima, attraverso la farmacia, provveda all’approvvigionamento del farmaco mancante. Erano a disposizione dell’UMACA, in quel momento, solo sette fiale del chemioterapico.

INFERMERE1 (preparatore del farmaco), poco dopo, richiama MEDICO3 per rassicurare circa il reperimento del quantitativo mancante e per chiedere istruzioni in ordine alle modalità di somministrazione, non essendo possibile la somministrazione “a bolo lento cinque minuti“, indicata nella prescrizione, poiché 90 milligrammi di prodotto non potevano essere contenuti in unica siringa. MEDICO3 invita INFERMIERE1 a svuotare le fiale in un contenitore per la fleboclisi. Giunto il farmaco presso l’UMACA, INFERMERE1 provvede a trasferirlo in una sacca per fleboclisi e ad inviarlo al reparto.

La PAZIENTE, in vista della infusione con fleboclisi, dichiara perplessità a INFERMIERE2 (parimenti laureato in infermieristica), che doveva procedere alla somministrazione, e riferisce che nelle precedenti occasioni le modalità seguite era state diverse, e che si era provveduto con una siringa. INFERMIERE2, tuttavia, rassicura la PAZIENTE dicendole che “era la stessa cosa“.

 

Gestione dell’evento avverso

Nel pomeriggio del medesimo giorno della avvenuta somministrazione dei 90 mg, INFERMIERE3 apprende causalmente, dai commenti di INFERMIERE1 e INFERMIERE2, che nella mattinata si era reso necessario reperire quell’importante quantitativo di Vinblastina. INFERMIERE3, in allarme, pur se le due colleghe avevano riferito che era stato MEDICO3 (specializzato in oncologia) a confermare la terapia, si reca da MEDICO4 (uno dei medici strutturati del reparto), che, appena acquisite le prime informazioni, nel tardo pomeriggio telefona a MEDICO1 (dirigente) per metterlo al corrente. Questi, a sua volta, cerca MEDICO3 che si reca in reparto e, verificata la situazione, chiama, a sua volta, MEDICO1, comunicando che, effettivamente, l’indicazione in cartella era pari a mg. 90 di Vinblastina.

Viene contattata la PAZIENTE, che aveva cominciato ad accusare i primi malesseri e si era recata al Pronto soccorso dell’ospedale, da cui, tuttavia, era stata rinviata al domicilio. MEDICO3 (specializzato) invita allora la PAZIENTE a presentarsi l’indomani mattina presso il Reparto di Oncologia, dove la medesima viene ricoverata per “gastroenterite”. Sulla cartella clinica viene annotato “si ricovera alle 11.50. Paziente in discrete condizioni cliniche generali (…) riferisce comparsa di diarrea liquida e ripetuti episodi di vomito associati a coliche addominali“. Non si fa cenno, in cartella, al sovradosaggio del farmaco antiblastico.

Il giorno 9 dicembre, MEDICO4 (strutturato) vede la PAZIENTE, in reparto, che risultava ricoverata per “neutropenia”, stupendosi della presenza di MEDICO1 e MEDICO3, posto che si trattava di giornata prefestiva. Solo lunedì MEDICO4 può constatare, su un file denominato T, l’informazione ricevuta in ordine al quantitativo di Vinblastina somministrato alla paziente, pari a mg. 90. A quel punto ne parla con altri medici del reparto e quindi si reca, per denunciare il fatto, dal DIRETTORE SANITARIO, che ne era all’oscuro. Quello stesso giorno, MEDICO1 (dirigente) convoca il personale medico nella sua stanza rassicurando sul fatto che aveva preso in mano la situazione e comunica formalmente l’evento avverso alla Direzione sanitaria.

In giornata viene comunicato alla famiglia l’errore commesso.

Intanto, le condizioni della PAZIENTE vanno via via peggiorando, cosicché il 16 dicembre, su richiesta dei familiari vista la pancitopenia, previo accordo con il reparto di ematologia, la paziente viene trasferita in Ematologia e poi ricoverata presso il Reparto di Rianimazione ivi decedendo per arresto cardiaco.

 

PRIMO GRADO

Il Tribunale condanna MEDICO1, MEDICO2, MEDICO3, INFERMIERE1 e INFERMIERE2   in quanto responsabili del reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p., per avere, in cooperazione fra loro, colposamente cagionato la morte della PAZIENTE, alla quale, nel corso del trattamento chemioterapico, veniva somministrata Vinblastina pari a mg. 90, a fronte di un dosaggio previsto in mg. 9, così causando una condizione di tossicità sistemica, con conseguente decesso per arresto cardiaco.

Il Tribunale assolve lo STUDENTE in quanto attuatore di mero errore di trascrizione senza avere conoscenze (di leges artis) adeguate a rendersi conto della gravità dell’errore; e nel contempo, in relazione al proprio curriculum, senza essere tenuto ad avere tali adeguate conoscenze.

La sentenza, altresì, afferma la penale responsabilità di MEDICO2 e MEDICO3 per i reati di cui agli artt. 110,81 e 481 c.p. per avere, in concorso fra loro ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, in 123 diverse occasioni, il primo consentendolo, la seconda materialmente sottoscrivendo, falsamente attestato nelle prescrizioni ospedaliere interne la firma di MEDICO1, sotto il timbro recante la dicitura specifica di MEDICO2 [“Dott. … … – medico chirurgo”]; nonché la penale responsabilità di MEDICO2 per avere tenuto la medesima condotta …  in altre 105 occasioni. [N.d.R.: quest’ultimo profilo, riguardante le alterazioni del documento e le apposizioni delle firme, non verrà, tuttavia, ulteriormente considerato nel proseguo di questa nota, poiché si tratta di reati afferenti a tematiche non riguardanti la prestazione sanitaria, ovvero l’ars medica]

Medici e infermieri vengono condannati con pene detentive, a seconda delle rispettive posizioni, da quattro anni sino a sette anni; con l’ulteriore sanzione, per i medici ritenuti maggiormente responsabili, consistente nella interdizione dalla professione medica (per sette anni e per sei anni).

Interessante osservare che la sentenza, quanto alla natura della colpa, cumula i tre profili ravvisando “massimo grado di imperizia, negligenza e imprudenza”.

 

SECONDO GRADO

La sentenza di appello, dopo aver ripercorso la estesa ed articolata ricostruzione del giudice di primo grado, affronta le singole posizioni delineando, per ciascuno degli imputati, i profili di colpa.

MEDICO1. Quale Dirigente medico del Reparto di Oncologia e tutor di MEDICO 2 e di MEDICO3, la sentenza della Corte di appello addebita, in primo luogo, il disordine strutturale ed organizzativo in cui versava il reparto del quale, a seguito del pensionamento del precedente Direttore … , egli aveva concretamente assunto la guida; in secondo luogo, l’avere preso in carico nel reparto di Oncologia una paziente affetta da patologia che, secondo specifica circolare organizzativa, doveva essere trattata presso il Reparto di Ematologia, senza, peraltro, preparare il personale medico e paramedico strutturato, posto che nel Reparto di Oncologia si trattavano i c.d. tumori solidi e non i tumori liquidi come il linfoma di Hodgkin; in terzo luogo, l’avere consentito agli specializzandi l’autonoma gestione della PAZIENTE, nonostante la patologia non fosse comunemente trattata nel Reparto di Oncologia, con modalità poco adeguate.

MEDICO2 (specializzando). La sentenza della Corte d’Appello, gli ascrive non solo il materiale comportamento dell’errata copiatura del dato mg. 9 di Vinblastina, trasformato dal medesimo in mg. 90 di Vinblastina allorquando compilò la cartella clinica il giorno …, ma gli ascrive anche l’assoluta mancanza di conoscenza sia delle regole di cura dei tumori liquidi sia delle caratteristiche del farmaco: la mancata conoscenza appare dimostrata anche dal fatto che, nel modulo di consenso dell’atto medico compilato dal medesimo e fatto firmare alla PAZIENTE, l’acronimo della terapia ABVD è riportato in modo errato come ABVT; siffatta mancanza di conoscenza, nonché l’assenza di studio e di esperienza su quel tipo di patologia e su quel medicinale, avevano trasformato l’atto di MEDICO2, anziché  nella prescrizione consapevole – fondata sulla posologia determinata sulla superficie della corporatura della paziente, che il medesimo aveva riferito di compiere ad ogni somministrazione – in un atto inconsapevole e meramente materiale di copiatura, che aveva dato l’avvio alla grave serie di errori a seguito dei quali la PAZIENTE era deceduta.

MEDICO3 (specializzato in oncologia medica e specializzando in patologia medica). La sentenza della Corte d’Appello gli rimprovera – oltre le falsificazioni – l’avere sottoscritto, apponendo la propria firma sotto il timbro di MEDICO2, il foglio di prescrizione interno redatto il 6 dicembre dallo STUDENTE, avviando la paziente all’Accettazione senza effettuare alcun controllo circa la congruenza della prescrizione. La sentenza della Corte d’Appello rimprovera, altresì,  l’avere provveduto, in assenza della necessaria conoscenza delle terapie da somministrare per quel tipo di tumore, a dare indicazioni a INFERMIERE1 – che lo interpellava sul da farsi non essendo a disposizione quel quantitativo di farmaco – affinché ne reperisse la quota mancante, senza assumere alcuna ulteriore informazione che non fosse la consultazione della cartella clinica,  neppure avvedendosi che nelle precedenti occasioni la prescrizione era correttamente indicata in mg. 9. Rimprovera, infine, di avere dato disposizioni all’infermiera professionale – che chiedeva in che modo procedere non essendo possibile la somministrazione a “bolo lento” tramite siringa – di provvedere a trasferire i 90 milligrammi di Vinblastina in una sacca per fleboclisi, omettendo ogni controllo sulla correttezza della terapia e senza interrogarsi sull’incongruenza fra la modalità prescelta e quella “a bolo lento” prevista dalla prescrizione, inidonea alla somministrazione di un simile quantitativo di farmaco.

INFERMERE1. La sentenza della Corte d’Appello – presupponendo l’assenza di ogni autonomia di valutazione riconosciuta alla professione infermieristica [N.d.R.: su questo punto, tuttavia, è da vedere, infra,  il diverso avviso della Corte di Cassazione] e contestando l’assenza  di ogni conoscenza sulla natura del farmaco da somministrare – rimprovera di avere omesso di interpellare un medico strutturato per chiedere lumi sulla posologia, avuto riguardo all’esorbitanza del quantitativo, accontentandosi di ricevere oralmente da MEDICO3 (specializzato) la conferma del quantitativo di Vinblastina da somministrare; altresì, la Corte d’Appello rimprovera di avere provveduto alla preparazione in modo “artigianale” svuotando le nove fiale di Vinblastina in una sacca per fleboclisi, modificando così il piano di terapia relativamente alle modalità di somministrazione, anche sotto questo profilo in assenza di prescrizione di medico strutturato e sulla base di un mero dialogo telefonico con la specializzanda in patologia medica [N.d.R.: peraltro, oltre che specializzanda in patologia medica,  anche specializzata in Oncologia]D.N..

INFERMIERE2. Avendo rinunciato ai motivi di appello, la sentenza della Corte di appello non entra nel merito ai fini della ricostruzione di profili fattuali della colpevolezza.

Quanto alle sanzioni, la Corte d’Appello decide come segue.

MEDICO1. Condanna, confermata, ad anni 4 e mesi 6 di reclusione.

MEDICO2. Condanna, ridotta rispetto al primo grado, ad anni 4 e mesi 8 di reclusione, con corrispondente riduzione temporale della interdizione dalla professione medica.

MEDICO3. Condanna, ridotta rispetto al primo grado, ad anni 4 e mesi 4 di reclusione, con corrispondente riduzione temporale della interdizione dalla professione medica.

INERMIERE1. Condanna, ridotta rispetto al primo grado, ad anni 2 e mesi 10 di reclusione, eliminando la pena accessoria dell’interdizione dalla professione infermieristica

INFERMIERE2.  Condanna, ridotta rispetto al primo grado, ad anni 2 e mesi 6 di reclusione, escludendo la pena accessoria dell’interdizione dalla professione infermieristica.

CORTE DI CASSAZIONE

La Corte di Cassazione svolge una disamina particolarmente approfondita della sentenza della Corte d’Appello, con affermazioni di notevole rilievo a fini di commento (cosicché verranno riportate infra).

Quanto ai contenuti decisori, eccone una sintesi.

MEDICO1.  La Corte di cassazione, tenuto conto della mancata notificazione del decreto di citazione in giudizio per il grado di appello nei confronti dell’imputato Medico1 P.S., dichiara la nullità della sentenza pronunciata nei suoi confronti, e rinvia alla medesima Corte di appello per nuovo giudizio.

MEDICO2 E MEDICO3.  La Corte di Cassazione accoglie i motivi di ricorso circa l’eccessività della pena per il reato di omicidio colposo come denunciata da entrambi gli imputati. L’accoglimento si basa sulla contraddittorietà della motivazione, nella impugnata sentenza della Corte di Appello, fra la parte dedicata alla descrizione della grave disorganizzazione del reparto di oncologia e la parte dedicata alla determinazione delle pene da irrogarsi. Invero, ciò che viene descritto dalla sentenza come un vero e proprio “sfascio organizzativo”, la cui entità portò, dopo l’ispezione, alla chiusura del reparto di oncologia, deve riversarsi sul giudizio relativo alla sanzione penale irrogata per il reato colposo, essendo detto quadro quello in cui si maturarono la negligenza e l’imperizia dei medici coinvolti, certamente favorite dalla più generale negligenza connotante l’assenza di adeguamento dell’unità operativa agli standard di sicurezza necessari, ragione per la quale si giunse alla temporanea sospensione dell’attività. La sentenza deve dunque, secondo la Corte di Cassazione, essere annullata relativamente al trattamento sanzionatorio inflitto a MEDICO2 E MEDICO3, trattamento che andrà rideterminato avuto riguardo alle premesse appena precisate.

INFERMIERE1. In considerazione della mancata verifica circa la esistenza di norma (afferente alla struttura, o di prassi) tale da imporre, in caso di dubbio, il ricorso a medico strutturato, la sentenza della Corte d’Appello deve essere annullata con rinvio sul punto, facendo carico alla Corte d’Appello di verificare se sia ricavabile l’esistenza di una regola di condotta, contenuta in norme procedurali note o conoscibili dall’agente modello, quali linee guida, buone prassi, protocolli, raccomandazioni e normative interne o consuetudinarie, con la quale si preveda che l’interlocuzione fra l’infermiere professionale ed il medico, relativamente allo scioglimento dei nodi relativi al dosaggio dei farmaci ed al loro allestimento, debba intervenire solo con medici c.d. “strutturati”, escludendo altri medici operanti nei reparti, seppur  dotati – in fatto – di relativa autonomia di intervento.

INFERMIERE2. Ha rinunciato ai motivi di appello.

 

COMMENTI E SEGNALAZIONI

Negligenza, imprudenza, imperizia.

I tre concetti – di negligenza, imprudenza, imperizia – vanno ad occupare l’area della colpa, cioè l’area della rimproverabilità che residua al di fuori del dolo (ove il dolo è la consapevolezza e la volontà di ledere l’interesse protetto).

Anche se si tratta di concetti antichi, i rapporti tra di essi sono talvolta non chiari: ciò accade anche perché alcuni magistrati, dinanzi a una condotta che ritengano sanzionabile, contestano la colpevolezza per negligenza imprudenza imperizia (congiuntamente tra loro), cumulando le nozioni ed agevolando in tal modo la strategia accusatoria (la quale impostazione appare segnatamente nel giudizio di primo grado).

Sui rapporti fra i tre concetti, la sentenza della Cassazione offre formulazioni interessanti, che emergono, in particolare, nell’ambito delle considerazioni riferite alla colpevolezza di MEDICO2 (lo specializzando in oncologia). Eccone uno stralcio:

“”La difesa di MEDICO2. [N.d.R.: laddove chiede di cassare la sentenza della Corte di Appello che lo condanna per omicidio colposo] si concentra sulla rimproverabilità della condotta. Sostiene, infatti, il ricorrente, che la descrizione della condotta quale “imperita” non corrisponde al concetto di “imperizia” come declinato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui è tale la condotta del medico incompatibile con un livello minimo di conoscenza tecnica, di esperienza e capacità professionale che costituiscono il presupposto per l’esercizio della professione medica. Invero, l’apposizione della cifra “0”, dopo quella del dosaggio previsto, andrebbe piuttosto configurata [sempre a dire di MEDICO2] come un errore di “distrazione” rientrante, dunque, nel concetto di negligenza.

[Secondo la Corte di Cassazione, invece] la sentenza della Corte di Appello, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente [MEDICO2], non confonde imperizia e negligenza ma considera che l’errore di trascrizione, da parte di MEDICO2, costituisca sintomo evidente della grave imperizia del medesimo, dimostratosi privo di minime cognizioni in materia di cura del tumore liquido, le quali cognizioni, laddove possedute, avrebbero impedito un siffatto grossolano sbaglio nella ricopiatura, dovuto non alla distrazione, ma all’inconsapevolezza delle modalità di cura di quel tipo di patologia; e, a dimostrazione di ciò, depone anche la compilazione, da parte di MEDICO2, del consenso informato sottoposto alla paziente, ove lo specializzando riportò erroneamente financo l’acronimo della terapia (ABVT anziché ABVD).

La pretesa ricostruzione della colpa come lieve, e quindi penalmente non rimproverabile ai sensi dell’art. 3 del c.d. Decreto Balduzzi [N.d.R.: vigente allora, mentre oggi è vigente la legge c.d. Gelli-Bianco], si scontra con la totale estraneità della condotta del medico specializzando all’area di limitazione di responsabilità segnato dalla norma, in quanto non è in discussione, né viene validamente sostenuto, che MEDICO2 non avesse dato applicazione alle linee guida in materia di cura del linfoblastoma, ma si esclude che egli ne fosse addirittura a conoscenza.

Neppure può ritenersi che la strada dell’inquadramento della condotta nella colpa lieve sia percorribile inquadrando il comportamento come ‘negligente’ in quanto connotato da distrazione.

E’ pur vero, infatti, che alcune pronunce di questa Sezione hanno affermato che la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dal D.L. n. 158 del 2012, art. 3, conv. con L. n. 189 del 2012, pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia configurarsi anche in ipotesi di negligenza (Sez. 4, Sentenza n. 45527 in data 01/07/2015, dep. 16/11/2015, Rv. 264897; Sez. 4, Sentenza n. 47289 del 9.10.2014, dep. il 17.11.2014, Rv. 260739) non potendo escludersi che le linee guida pongano raccomandazioni rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta del soggetto agente sia quello della diligenza, “come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza, che quella della adeguatezza professionale” (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 266903). Nondimeno, è stato precisato che in assenza di una distinzione precisa nella dottrina penalistica fra gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia, come aspetti della colpa generica, tutti riconducibili alla violazione di massime esperienziali più o meno codificate – la distinzione tra colpa per imprudenza (tradizionalmente qualificata da una condotta attiva, inosservante di cautele ritenute doverose) e colpa per imperizia (riguardante il comportamento, attivo od omissivo, che si ponga in contrasto con le leges artis) non offre uno strumento utile al fine di delimitare l’ambito di operatività del D.Lgs. n. 158 del 2012 “ciò in quanto si registra una intrinseca opinabilità, nella distinzione tra i diversi profili della colpa generica, in difetto di condivisi parametri che consentano di delineare, in termini tassativi, ontologiche diversità, nelle regole di cautela” (ancora Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 266903).

Ma se la diligenza, concetto generalissimo, può considerarsi come la cura richiesta nell’adempimento puntuale di un obbligo imposto all’agente, allora ben si comprende che la perizia ne è una specificazione, che consiste nella puntuale applicazione delle regole specialistiche, contenute, nella pratica medica, nelle linee guida e nelle buone pratiche.

Ecco, dunque, che la condotta negligente, in quanto afferente all’erroneo adempimento di un obbligo per mancanza di cura, anche sotto il profilo della mera attenzione, implica una violazione di regole comuni, non necessariamente codificate, rispetto alle quali la noncuranza dell’agente “può” costituire il presupposto della violazione delle regole specialistiche, la cui mancata approfondita conoscenza rende più difficile – da parte dell’agente – la percezione dell’errore, derivato dalla trascuratezza nell’esecuzione del compito affidato, anche di fronte alla mera distrazione, mancando quell’allertamento della coscienza, derivante dalla conoscenza della materia, nell’ambito della quale si opera.

Che dire, in proposito?

In primo luogo, è da registrare anche qui, nel testo della Cassazione, una tendenza a sovrapporre i parametri di negligenza, imprudenza, imperizia), nel senso che, una condotta colposa possa risultare qualificabile sia come negligente sia come imprudente sia come imperita.

In effetti, ragionando in astratto, ciò parrebbe ineccepibile. Per esempio: un medico, se scrive un dosaggio errato perché non riconosce la difformità abnorme rispetto al dosaggio corretto, è imperito (poiché non conosce le leges artis); nel contempo è negligente (perché si mette a scrivere atti omettendo di essersi dedicato a una formazione adeguata per fare ciò che fa); infine è imprudente (perché non percepisce né soppesa adeguatamente il rischio di fare danni o, addirittura, accetta il rischio di cagionarne).

Tale possibilità di sovrapposizioni concettuali, da parte dei tre parametri cosicché possano andare a coprire medesimi spazi, emerge anche in maniera diversa (in rapporto da genere a specie) nell’argomentare della Corte di Cassazione laddove afferma che la diligenza è una specificazione della perizia.

Va tuttavia osservato che la migliore esegesi tende a distinguere i tre parametri (negligenza, imprudenza, imperizia), ragionando come può illustrarsi dagli esempi che seguono.

Primo esempio: se il medico scrive un dosaggio errato quando (dalla sua prassi o da suoi scritti) è noto oppure è inducibile che conosce benissimo il dosaggio corretto, in tal caso il medico non potrà essere qualificato “imperito” ma dovrà essere qualificato “negligente” (poiché non ha esercitato la necessaria attenzione, si è distratto); e sarebbe improprio obiettare che sussiste anche imperizia poiché le regole dell’arte includerebbero l’obbligo di diligenza; l’obiezione sarebbe debole  perché il dovere di diligenza non è una regola specifica dell’ars medica. Sembra opportuno, quindi, ritenere che le leges artis siano le regole specifiche della sfera disciplinare a cui ci si riferisca.

Altro esempio: se un medico (quel medesimo medico che abbiamo ipotizzato “perito”), si ritrovi in stato di grave turbamento per un contrasto professionale in corso o per una avversità recente, e in tale stato si sia messo a scrivere un documento errando nel dosaggio, verosimilmente dovrà formularsi un giudizio di imprudenza per essersi dedicato a un compito delicato senza essersi, prima, adeguatamente rasserenato (o, quantomeno, senza essersi sufficientemente controllato al fine di ridurre il turbamento sino a renderlo compatibile con il corretto adempimento dei propri compiti).

I tre parametri, inoltre, sono distinguibili non solo ragionando in astratto ma, soprattutto, devono esseri distinti per norme di diritto positivo. Oggi è d’obbligo riferirsi alla legge Gelli Bianco la quale (nel solco della  legge Balduzzi, pur modificandola) ha posto, nell’articolo 6,  una regola che riguarda solamente l’imperizia (e non riguarda né la negligenza né l’imprudenza): “Qualora l’evento  si  sia  verificato  a  causa  di  imperizia,  la punibilità è  esclusa  quando  sono  rispettate  le  raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e  pubblicate  ai  sensi  di legge  ovvero,   in   mancanza   di queste, le  buone   pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni  previste  dalle predette linee guida risultino adeguate alle  specificità  del  caso concreto».

Cosa poi si intenda, qui, per imperizia, tuttavia non è facile intendere. Non è facile perché la norma fa pensare a una imperizia che permanga ravvisabile anche quando siano rispettate le linee guide o le buone pratiche.

Con una interpretazione letterale è difficile fare passi avanti. Certo, si potrà dire, per esempio, che, se una “”manovra” prevista in linea guida è risultata conosciuta ed è stata eseguita, ma risulta eseguita erroneamente, in tal caso sarebbe imperizia; tuttavia, a rigore, non si tratterà di una manovra eseguita “rispettando” linee guida o buone pratiche.

Occorrerà, in definitiva, aspettare il consolidarsi di un orientamento giurisprudenziale chiarificatore, soprattutto di cassazione; e spetterà alla dottrina contribuire a una ragionevole configurazione di tale orientamento.  

 

Colpevolezza in rapporto al grado di perizia ragionevolmente chiedibile all’operatore

È di qualche interesse richiamare l’attenzione sui seguenti enunciati della Corte di Cassazione:

Va affrontato l’ulteriore tema sottoposto dal ricorrente [MEDICO2] all’esame di questa Corte, relativo alla rimproverabilità concreta della condotta all’agente, sotto il diverso profilo del mancato completamento del percorso di studi di formazione specialistica, quantomeno in ordine al diverso giudizio di esigibilità richiesto al medesimo, rispetto a quello richiesto al medico specializzato [MEDICO3] ed al professore universitario [MEDICO1], presso il quale si svolgeva l’attività.

Soccorre, da questo punto di vista, la normativa di cui al D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 368, art. 38, intitolato: “Attuazione della direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE”. La disposizione prevede, al comma 1, che nell’ambito del programma formativo personale dello specializzando, seguito nel suo svolgimento dal tutor, vengano gradualmente affidati allo specializzando compiti assistenziali e l’esecuzione di interventi con autonomia vincolate alle direttive ricevute dal tutor medesimo.

Ora, è chiaro che la compilazione della diaria della cartella clinica, nell’ambito di un protocollo di cura, non può andare disgiunta dalla conoscenza della terapia impartita al malato, non costituendo un mero compito di scrittura sotto dettatura o per trascrizione del dato precedentemente annotato, ma la partecipazione, seppure nell’ambito delle direttive vincolate, al programma di formazione, che obbliga lo specializzando alla consapevolezza circa il tenore del suo intervento.

D’altra parte, la copiatura sulla prescrizione interna, affidata allo studente di medicina, assolto poiché inconsapevole dell’erronea indicazione sulla cartella del quantitativo di Vinblastina da somministrare, è cosa diversa dall’intervento del medico specializzando, non potendo certamente essere equiparate le due figure.

Inoltre: 

“”In tema di colpa, la valutazione in ordine alla prevedibilità dell’evento va compiuta avendo riguardo anche alla concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento (Sez. 4, n. 49707 del 04/11/2014 – dep. 28/11/2014, Incorvaia e altro, Rv. 263283: rinvio utile anche se la decisione era relativa   ad un caso di censura della sentenza di condanna dell’imputato per omicidio colposo del paziente affidatogli, la qual censura trovava motivazione non risultando adeguatamente considerata la qualità di semplice specializzando in neurologia come tale non equiparabile, in sé, a quella del medico specializzato, relativamente ad un caso del tutto diverso afferente alla mancata determinazione della gravità dell’errore commesso dallo specializzando, che formulò corretta diagnosi, applicando un protocollo attendista, anziché l’alternativo immediato intervento, la cui capacità salvifica era comunque ridotta).

Riassumendo, e in termini diversi: la colpevolezza di un soggetto va rapportata non solo a ciò che concretamente è ragionevole attendersi da lui, ma, soprattutto, a ciò che è ragionevole pretendere da lui. Non ci limita, quindi, a prendere atto della situazione ontologica (concludendo che, se un soggetto sa poco, da costui si può pretendere poco), ma occorre fare rifermento ai profili funzionali e deontologici. Se il soggetto non sa, ma dovrebbe sapere, non potrà giovarsi della non conoscenza, ma sarà qualificabile come imperito.

 

I compiti dell’infermiere professionale e l’ambito della sua autonomia

La sentenza della Corte di cassazione si sofferma a lungo laddove argomenta per cassare la sentenza della Corte di appello che aveva condannato INFERMIERE1 rimproverandogli che, per risolvere il dubbio dinnanzi alla prescrizione abnorme (90 anziché 9 mg.) non aveva contattato un medico strutturato.

 “La normativa che regola la professione sanitaria di infermiere fa riferimento ad una pluralità di disposizioni di natura legislativa e regolamentare che ne hanno profondamente mutato la natura disegnando l’autonomia operativa propria tipica della figura professionale. Si tratta, innanzitutto, della L. n. 43 del 2006, che individua i requisiti di accesso e quelli relativi all’abilitazione indi della L. n. 251 del 2000 con cui viene stabilito all’art. 1 che “Gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche e della professione sanitaria ostetrica svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché è dagli specifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza”. Ed inoltre del D.M. Sanità 14 settembre 1994, n. 739, ancora vigente e parte integrante della disciplina, contenente il “Regolamento concernente l’individuazione della figura e del relativo profilo professionale dell’infermiere”, secondo il quale: “L’infermiere: a) partecipa all’identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività; b) identifica i bisogni di assistenza infermieristica della persona e della collettività e formula i relativi obiettivi; c) pianifica, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico; d) garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche; e) agisce sia individualmente sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali; f) per l’espletamento delle funzioni si avvale, ove necessario, dell’opera del personale di supporto (…)”.

La complessa normativa tratteggia, dunque, una figura professionale che, per le competenze che le sono affidate, assume una specifica ed autonoma posizione di garanzia nei confronti del paziente nella salvaguardia della salute, della cura e dell’assistenza, il cui limite è l’atto medico.

In tale inquadramento, l’atto di somministrazione del farmaco è concepito, secondo la giurisprudenza di legittimità, come atto “non meccanicistico ma collaborativo con il personale medico, orientato in termini critici, al fine non di sindacare l’operato del medico bensì per richiamarne l’attenzione su errori percepiti ovvero per condividere gli eventuali dubbi circa la congruità o la pertinenza della terapia stabilita (In applicazione del principio la Corte di cassazione, in altro procedimento, ha confermato la sentenza di condanna per omicidio colposo a carico dell’infermiere professionale, con funzioni di caposala, il quale aveva somministrato un anticoagulante e aveva omesso di segnalare l’incompatibilità dell’antibiotico prescritto benché dalla cartella clinica risultasse la chiara incompatibilità con l’allergia del paziente, della quale l’imputato era già ben a conoscenza per ragioni di servizio). (Sez. 4, n. 2192 del 10/12/2014 – dep. 16/01/2015, P.G. in proc. Leonardi, Rv. 26177601). 

È chiaro tuttavia [prosegue la Cassazione], che la prescrizione dei farmaci resta al di fuori delle competenze infermieristiche e che il ruolo di garanzia che compete all’infermiere nella “sfera” della terapia farmacologica si limita al “confronto” con il medico cui è demandata la scelta della cura. Rientra, in questo senso, fra gli obblighi dell’infermiere la segnalazione di “anomalie” che egli sia in grado di riscontrare o di eventuali “incompatibilità” fra farmaci o fra la patologia ed il farmaco da somministrare o fra particolari condizioni (per es. allergie annotate in cartella o a sua conoscenza) e la cura prevista.

 

Percezione di errore da parte dell’infermiere, e dovere di confronto con il medico

La sentenza della Corte d’Appello affronta la questione della divergenza fra il comportamento atteso e quello tenuto dall’infermiera ascrivendo sostanzialmente alla medesima due profili di colpa, il primo dei quali riguarda l’omesso controllo sulla congruenza e le modalità di somministrazione.

Come riconosciuto da entrambe le sentenze [di primo e secondo grado], INFERMIERE1, ricevuta la prescrizione, nell’accingersi a prepararla, preso atto dell’insufficienza del farmaco presso l’UMACA, essendo a disposizione solo sette delle nove fiale necessarie (la Vinblastina, infatti, era fornita già ricostituita 1 mg X 1 ml in fiale da ml. 10) prese immediato contatto con il reparto, telefonando al numero interno della saletta dell’ambulatorio di MEDICO1, provvedendo perciò a cercare il “confronto” con il medico in ordine al contenuto della prescrizione, di per sé incompatibile con lo stoccaggio del farmaco a disposizione per la terapia. Solo quando le fu dato, dal medico specialista in “oncologia” [N.d.R.: Medico3], il compito di procurarsi il farmaco mancante, provvedette a procurarselo. Quindi INFERMIERE1, proprio adempiendo al compito affidatole, pose in essere una condotta tale da “richiamare” l’eventuale errore di prescrizione e solo poi, sollecitata a reperire un quantitativo ulteriore da un medico specialista nella disciplina oncologica, sebbene non strutturato, si preoccupò di dare esecuzione alle istruzioni impartite. Ma, la sua sollecitazione rispetto alla congruità della prescrizione non si limitò alla segnalazione dell’insufficienza di un farmaco, – rispetto alla cui conoscenza e somministrazione da parte dell’infermiera le stesse sentenze di merito sono lungi dal sostenere la consuetudine – ma comunicò l’impossibilità dell’approntamento con le modalità indicate nella prescrizione ricevuta, ricevendo, anche in questo caso istruzioni dal medico specialista in oncologia (si rammenti che [MEDICO3] frequentava il reparto come specializzanda in patologia medica, ma aveva già conseguito la specializzazione in oncologia).

Non si può, pertanto, affermare – come fanno i giudici di appello senza confrontarsi adeguatamente né con la normativa, né con la lettura giurisprudenziale degli obblighi incombenti sul personale infermieristico – che da parte di INFERMIERE1 G.C. sia mancato il dovuto “confronto” sulla congruità della prescrizione e sulla sua preparazione, nei limiti del rispetto dei ruoli e senza addivenire al sindacato dell’operato del medico, pur opportunamente sollecitato.

In sintesi: l’infermiere, rilevata l’abnormità della prescrizione, si è rivolte a personale medico; il medico ha confermato dichiarando di avere verificato; l’infermiere, altresì, ha obiettato che la prescrizione non era coerente con la modalità di somministrazione; il medico ha indicato, non dubitativamente ma in modalità direttiva, di effettuare la somministrazione in altra modalità. Il confronto, per la Cassazione, può dirsi avvenuto, né viene prospettato un dovere di non precedere comunque (superando l’indicazione proveniente dal medico).

 

Percezione di errore da parte dell’infermiere e dovere di confronto con medico che sia strutturato

Ulteriore aspetto in questione è relativo alla violazione della regola che imporrebbe l’obbligo di raffrontarsi con un medico “strutturato”, qualità che … [MEDICO3] non possedeva, posto che tale medico, pur già specializzato in oncologia e specializzando in patologia medica, frequentava il reparto come medico volontario.

Il ragionamento formulato dalla Corte di appello sul punto – che ripete sostanzialmente il ragionamento del Tribunale – appare [secondo la Corte di Cassazione] radicalmente viziato in quanto, da un lato, omette di indicare la fonte da cui trae ex ante la regola che obbliga l’infermiere a chiedere indicazioni ad un medico del reparto, che rivesta la qualifica di lavoratore dipendente, dall’altro, manca di individuare, al fine della loro verifica ex ante, l’esistenza di linee guida o di prassi interne da seguire nei rapporti fra il reparto – ambulatorio e l’UMACA, così da consentire di appurare l’incidenza della posizione di fatto rivestita da … [MEDICO3] all’interno del reparto.

La decisione [della Corte d’Appello], invero, appare sul punto del tutto carente, risolvendosi nella considerazione secondo la quale “avrebbe potuto e dovuto” chiedere un consulto ad un “medico strutturato del reparto per chiarire la ragione di un simile quantitativo di quel farmaco che appariva oggettivamente esorbitante da allestire”. Si tratta di un’affermazione che non rimanda ad alcun accertamento sulla sussistenza di un simile obbligo come derivante da linee guida o buone prassi – la cui esistenza deve trovare positiva dimostrazione in giudizio – proprie della professione infermieristica, relative alla preparazione e somministrazione dei farmaci nei casi di necessità di verifica dei dosaggi e delle modalità di allestimento, a mezzo di confronto con il personale medico. Né l’esistenza del dovere di riferirsi esclusivamente a medici strutturati viene ricavata da normative interne all’azienda sanitaria o al reparto, anche sotto il mero profilo dell’instaurarsi di una prassi conosciuta o conoscibile dal personale ivi operante.

Per contro, seppure la decisione [della Corte d’Appello] si soffermi a lungo sul ruolo ricoperto nel reparto di oncologia da …  [MEDICO3], riconoscendo che svolgeva al suo interno stabili mansioni lavorative, essendo considerato braccio destro di MEDICO1 – cosicché   visitava e seguiva i pazienti, sottoscrivendo le cartelle cliniche – poi non si misura con siffatta descrizione dei compiti e della veste effettivamente riconosciuta all’oncologa non strutturata, fermandosi alla semplice considerazione che ella non aveva un incarico formale e che, pertanto, non poteva essere valido interlocutore nel confronto sulla posologia del farmaco.

Nel quadro organizzativo del reparto di oncologia, così come tratteggiato dalla sentenza,  MEDICO3 è figura assai significativa, rispetto alla quale manca [nella sentenza della Corte d’Appello] il doveroso approfondimento sulla natura dei rapporti in concreto tenuti con il personale medico c.d. strutturato, ma soprattutto con il personale infermieristico, stante l’importanza del suo operato riconosciuto da MEDICO1 P. e noto a tutti, financo, come sottolinea la Corte d’Appello, ai vertici amministrativi, che avrebbero consentito, in buona sostanza, il prolungamento del tirocinio in oncologia, presso il reparto ove operava MEDICO1, sebbene MEDICO3 fosse già specializzato in detta branca della medicina.

È chiaro che la ricerca della regola cautelare relativa all’obbligo di indentificare l’interlocutore con il quale avviare il “confronto” fra infermiere e medico deve essere calato in siffatto scenario, individuando ex ante la modalità operativa da seguire, rinvenendola in norme procedurali note o conoscibili dall’agente modello, quali linee guida, buone prassi, protocolli, raccomandazioni e normative interne o consuetudinarie.

La Corte d’Appello, al contrario, si muove su un terreno non coerente con il canone della prevedibilità dell’evento che informa i reati colposi, e giunge a costruire la regola cautelare di condotta da applicare al caso concreto formulando un ragionamento ex post – di carattere circolare – con cui rintraccia l’obbligo, che assume violato, ricavandolo dal prodursi del fatto dannoso, finendo per confondere la rimproverabilità della condotta, valutabile solo ex ante, con la sua efficacia causale, giudicabile solo ex post.

La sentenza della Corte di appello deve, quindi, essere annullata con rinvio sul punto, facendo carico alla Corte territoriale di verificare se dal compendio delle emergenze raccolte in giudizio sia ricavabile l’esistenza di una regola di condotta contenuta in norme procedurali note o conoscibili dall’agente modello, quali linee guida, buone prassi, protocolli, raccomandazioni e normative interne o consuetudinarie, con la quale si preveda che l’interlocuzione fra l’infermiere professionale ed il medico, relativamente allo scioglimento dei nodi relativi al dosaggio dei farmaci ed al loro allestimento, debba intervenire solo con medici c.d. “strutturati”, escludendo altri medici operanti nei reparti, ancorché dotati – seppure di fatto – di relativa autonomia di intervento””

La citazione finisce qui: citazione importante per illustrare le attenzioni fattuali e i percorsi argomentativi su un caso interessante come questo.

Dal punto di vista della percezione della professionalità infermieristica, la Corte di Cassazione, anziché chiudere la vicenda con un annullamento senza rinvio (riconoscendo in tal modo che l’infermiere aveva fatto ciò che poteva, quindi non era colpevole), lascia aperto il caso, e rinvia alla Corte d’Appello per verificare la eventuale esistenza di una regola che imponga, come interlocutore, solamente un medico strutturato.

Purtroppo, se questo fosse l’orientamento, la certezza del diritto ne verrebbe a soffrire, poiché una regola siffatta potrebbe esistere in una struttura e non esistere in un’altra: sarà interessante vedere cosa dirà la corte di Appello.

Inoltre, anche i rapporti tra gli operatori sanitari non ne uscirebbero agevolati, perché un infermiere potrebbe vedersi costretto a rifiutare, come interlocutori, medici autorevoli, non strutturati, ma da tempo caratterizzati da ruoli importanti entro nella struttura

Forse qualcuno, leggendo o divulgando la sentenza, potrebbe raccomandare la seguente regola prudenziale: in caso di dubbio, rivolgersi sempre a un medico strutturato! Certo, la regola sarebbe prudenziale, ma è difficile non pensare alle conseguenze del suo eventuale riversarsi nella realtà concreta delle strutture sanitarie (spesso oberate e, talvolta, financo afflitte in gravi difficoltà organizzative).